Non ti pago è una commedia in tre atti scritta nel 1940 in cui il folle di turno costretto suo malgrado a scontrarsi con chi lo circonda (famiglia in primis) a causa della sua anacronistica visione del mondo è il protagonista don Ferdinando.
Questa è la storia. Don Ferdinando è un padre di famiglia che gestisce il banco lotto ereditato dal padre defunto e che “se joca tutt’ ’e denare dint’ ‘o banco lotto suio stesso”. Un giorno Mario Bertolini, un dipendente del banco lotto fidanzato a sua insaputa (ma con il beneplacito della moglie Concetta) con sua figlia Stella, annuncia di aver vinto molti soldi grazie ad una quaterna giocata con i numeri che in sogno gli sono stati dati dal padre di don Ferdinando. Inizia lo scontro che vede da una parte il protagonista che reclama il biglietto vincente perché sostiene che quei numeri erano in realtà destinati a lui, e dall’altra tutti gli altri.
Lo scontro è inevitabile perché a fronteggiarsi sono due modi diversi di vedere il mondo, ovvero il passato e il presente. Don Ferdinando, infatti, diventa il portavoce della vecchia generazione napoletana che trascorre i giorni a sperare di poter migliorare la propria esistenza giocando al lotto e consultando la Cabala per interpretare sogni e visioni di ogni genere, magari in compagnia di un amico fidato (e un po’ svagato come lo è Aglietiello) con cui trascorrere nottate insonni sui tetti a tradurre in numeri vincenti le forme delle nuvole.
Si tratta di una generazione che, abituata ad essere trascurata dallo Stato, è portata a credere nell’aiuto sovrannaturale più che in quello delle autorità: tant’è che sia quella civile (l’avvocato Lorenzo Strumillo) che quella religiosa (don Raffaele) non gli daranno ragione e lui invocherà l’intervento del padre defunto affinché faccia passare “quattro milioni di guai” a Bertolini ogni volta che cercherà di riscuotere la vincita se davvero quei numeri (e i soldi) erano destinati lui.
Don Ferdinando, quindi, rappresenta uno stile di vita ancestrale e primitivo non più condiviso dalle nuove generazioni (neanche dalla moglie che lo reputa ‘pazzo’), anche se la sua è una follia lucida generata da ragionamenti logici. Egli, infatti, crede che sia necessario tenersi buoni i morti affinché aiutino i vivi, e dal momento che ha sempre fatto celebrare messa per il padre defunto e non ha mai mancato ai suoi doveri di figlio, è convinto (non a torto, considerando il suo bagaglio culturale) che il padre volesse aiutare lui e non Bertolino. Lo spiega chiaramente nel secondo atto parlando con il prete.
(…) Io spendo cinquemilaseicento lire al mese, per candele, trasporto, fiori e messe per mio padre defunto, e il defunto, padre legittimo mio, piglia ‘na quaterna sicura ‘e quattro milioni e ‘a porta a n’estraneo? Ma scusate, don Rafè, io lo posso giustificare solamente perché essendo morto non aveva il dovere di sapere che io avevo cambiato casa e che sto in un quartiere nuovo (…).
Tuttavia i suoi ragionamenti restano incomprensibili agli occhi di chi lo circonda che ormai vive secondo altri valori più moderni. È il classico scontro tra la vecchia generazione legata a riti atavici e terrorizzata dall’eventualità di perdere la propria posizione privilegiata contro la nuova generazione che vuole prenderne il posto con i suoi nuovi valori e com’è naturale che sia. Al termine della commedia sarà chiaro il reale motivo dell’astio di don Ferdinando contro Bertolini: il giovane è una minaccia alla sua ‘supremazia’ e rischia di fargli perdere autorità perché è molto più fortunato di lui al gioco del lotto e soprattutto perché ama sua figlia. E c’è di più: don Ferdinando è stato tenuto all’oscuro dell’amore dei due giovani, e così la complicità fra madre, figlia e futuro genero è diventata un altro motivo di minaccia del suo ruolo di pater familias.
Ma la commedia ha un lieto fine che arriva soltanto nel momento in cui diventa possibile la convivenza fra i due mondi, tra il folle e gli altri. Con don Ferdinando che ritorna in possesso del biglietto trionfa, infatti, la ‘pazzia’ di una generazione che ha imparato a contare solo sulle proprie forze, su numeri, defunti e maledizioni piuttosto che sulle autorità. Ma è anche vero che con il suo atteggiamento conciliante il protagonista lascia consapevolmente il posto al ‘naturale’ (anche se tanto ostacolato) spodestamento del padre e dell’anziano. Il tutto nel nome di una unica legge universale: l’amore.