“Ma possiamo veramente chiamarli eroi? Non hanno fatto nulla di sovrumano. Hanno difeso una cosa semplice, sono scesi in campo per una cosa semplice: per i diritti e la libertà dei singoli, per la loro libera evoluzione e per il loro diritto a una vita libera. Non si sono sacrificati per un’idea fuori dal comune (…). Il vero eroismo consiste forse proprio nel difendere con costanza la vita quotidiana, le cose piccole e ovvie, dopo che si è parlato troppo di grandi cose” (Inge Scholl).
Sophie Scholl non era ebrea. Era nata nel 1921 nella città tedesca di Forchtenberg ed era la quarta dei sei figli della diaconessa luterana Magdalena e del borgomastro Robert Scholl. Insomma era tedesca, ma i nazisti la giustiziarono il 22 febbraio del 1943. La arrestarono insieme al fratello maggiore Hans il 18 febbraio del 1943 mentre lanciava dalla balaustra dell’atrio dell’Università di Monaco di Baviera le ultime copie del sesto volantino della ‘Rosa Bianca’. A fare la spia e a consegnare i due fratelli alla Gestapo fu il custode Jakob Schmid. Dopo un processo-farsa, il 22 febbraio Sophie (che aveva solo 21 anni), il fratello Hans (25) e l’amico Christoph Probst (24) furono condannati a morte “per alto tradimento” dal Tribunale del Popolo e decapitati nel cortile del carcere di Monaco-Stadelheim.
Eppure la giovane Sophie, soltanto una manciata di anni prima aveva militato nelle fila della ‘Gioventù Hitleriana’ a Ulma. Era il 1932 e i fratelli Scholl, affascinati dall’idea di Hitler di rendere la Germania una patria grande, felice e prospera, “per l’amor della gran causa” entrarono a far parte della ‘Hitler-Jugend’, fondata per accogliere i giovani tedeschi ai quali impartire una educazione sportiva, militare e politica secondo i principi dell’ideologia nazista. “Sentivamo di essere partecipi di un processo evolutivo – ha raccontato Inge Scholl nel libro ‘La Rosa Bianca’ (Itaca Edizioni, 2006) – e di un movimento che di una massa faceva un popolo. Alcune cose che ci infastidivano o ci lasciavano la bocca amara si sarebbero poi messe a posto, pensavamo”. E questo nonostante la disapprovazione del padre che, invece, non aveva mai nascosto la sua avversione nei confronti di Hitler che lui paragonava al pifferaio di Hameln.
Tuttavia molto presto l’entusiasmo si smorzò: come era possibile condividere gli ideali di chi proibiva certe canzoni popolari e letture, umiliava pubblicamente e faceva sparire gli oppositori, e aveva permesso la creazione dei campi di concentramento? “L’orrore, la paura, il piccolissimo germe di una incertezza senza fine” presero il sopravvento nell’animo dei fratelli Scholl e lo scoppio del secondo conflitto mondiale contribuì alla definitiva presa di coscienza da parte del fratello maggiore Hans che partì per il fronte, e ovviamente di Sophie. Quest’ultima non aveva neanche vent’anni quando scriveva lettere accorate in cui parlava di una politica “confusa e malvagia”, di uomini “malvagi che tradiscono un loro fratello forse per trarne un qualche vantaggio”, di una umanità che altro non era che “una dermatosi della terra” e di quanto “più bello sarebbe che le persone nell’ambito di un conflitto potessero mettersi dalla parte che considerano più giusta”.
Nella primavera del 1942 raggiunse il fratello a Monaco per studiare biologia e filosofia all’Università e iniziò subito a partecipare alle riunioni segrete di Hans e dei suoi amici della facoltà di medicina Alexander Schmorell, Christoph Probst e Will Graf, ai quali poco tempo dopo si aggiunse l’insegnante di filosofia di Sophie il professor Kurt Huber. La combriccola si faceva chiamare Studentenkompanie: i ragazzi amavano trascorrere le serate leggendo libri, cantando canzoni, declamando e componendo poesie, tutti rigorosamente invisi al regime. Fu in questo clima (quasi) goliardico che maturò l’idea di “attizzare la scintilla della resistenza”, di “illuminare quei tedeschi che non hanno ancora compreso come siano fosche le intenzioni del regime” e di “scuotere di dosso il giogo della tirannide per costruire assieme agli altri popoli europei, un mondo nuovo e più umano”. Nacque così il movimento denominato la ‘Rosa Bianca’. Nel giugno del 1942, tra gli studenti dell’Ateneo di Monaco circolavano dei fogli ciclostilati clandestini (venivano stampati in gran segreto nella cantina dell’atelier di un amico artista) a firma Rosa Bianca che – citando Friedrich Schiller e Johann Wolfgang von Goethe – inneggiavano alla “resistenza passiva” nei confronti di “ogni sistema di stato assoluto” prima che i giovani tedeschi “abbiano dato il loro sangue per ogni dove a causa dell’orgoglio smisurato di un criminale”.
Nel giro di circa un mese ne furono diffusi altri tre stampati in centinaia di copie e spediti a indirizzi scelti a caso sugli elenchi telefonici. In questi si inneggiava ad una “ondata di ribellione” e si parlava del nazionalsocialismo come di una “macchina statale comandata da criminali e ubriaconi”, un “cancro ulcerato del popolo tedesco”, un “governo abominevole e mostruoso”, la “dittatura del Maligno”. In particolare nel terzo volantino si leggeva che “bisogna aggredire il nazionalsocialismo in tutti i punti in cui è attaccabile”, ovvero sabotando l’industria bellica, “ogni adunata, manifestazione, festività, organizzazioni nate ad opera del partito nazionalsocialista”, e persino le collette stradali perché “il governo non dipende finanziariamente da queste raccolte” che venivano usate solo per “mantenere in una tensione continua” il popolo.
L’attività della ‘Rosa Bianca’ si fermò bruscamente a luglio: durante le vacanze fra i due semestri di studio gli studenti di medicina furono mandati al fronte russo, mentre Sophie fu costretta a prestare il cosiddetto servizio obbligatorio di guerra (condizione necessaria per avere il permesso di proseguire gli studi nel semestre invernale) in una fabbrica di armi di Ulma. Un lavoro “orribile, freddo e insulso”, “un’occupazione tremendamente impersonale” il cui scopo “fa inorridire” e che lasciava “fisicamente stanchi e psicologicamente disgustati” scriveva in alcune lettere in quelle settimane. Nel tardo autunno gli amici si rividero a Monaco per riprendere gli studi, ma l’estate del ’42 li aveva cambiati e segnati: oltre al lavoro nella fabbrica Sophie aveva fatto i conti con la carcerazione del padre reo di aver criticato pubblicamente Hitler e con la scoperta che nei campi di concentramento erano finiti anche i bambini dell’ospedale psichiatrico di Schwäbisch Hall (glielo aveva raccontato una diaconessa amica della mamma), mentre Hans e i suoi amici negli ospedali militari russi avevano visto molti uomini morire “per l’amor della gran causa”. L’idea fu comune a tutti: dal momento che si doveva rischiare la vita, perché non farlo per restituire la libertà e la dignità al popolo tedesco?
La ‘Rosa Bianca’ era tornata. Hans, Sophie e gli altri si rimisero a stampare i volantini, ma questa volta puntarono in alto: dovevano raggiungere il maggior numero di città possibili. Ma come fare? Si esposero in prima persona: misero i volantini nelle loro valigie e andarono personalmente a distribuirli a Francoforte, Stoccarda, Vienna e Friburgo viaggiando in treno e rischiando costantemente di essere scoperti a causa delle frequenti perquisizioni sia della polizia criminale che della Gestapo. Fu così che in diverse città arrivò il quinto volantino, questa volta firmato ‘Movimento di resistenza in Germania’ e dal titolo ‘Appello a tutti i Tedeschi’ in cui si leggeva che “una nuova guerra di liberazione sta per scoppiare”, che “la Germania futura potrà unicamente essere una federazione” e che “la classe lavoratrice deve essere liberata mediante un socialismo ragionevole”. Contemporaneamente dipinsero gli slogan anti-hitleriani “Abbasso Hitler!” e “Libertà” sui muri di Monaco e sui cancelli dell’Università. Nel frattempo la Germania nazista faceva i conti con la dura sconfitta a Stalingrado.
Il clima politico, dunque, era teso e a rincarare la dose c’era lo spauracchio che il popolo si ribellasse non con atti violenti bensì con la più potente delle armi, ovvero il pensiero e le idee in libertà. Questo mix non giovò alla causa della ‘Studentenkompanie’ sulle cui tracce era stata messa la Gestapo. Così il 18 febbraio del 1943, prima che un amico potesse metterli in guardia con una soffiata, Sophie e Hans si recarono all’Università per distribuire il sesto volantino: dal secondo piano dell’atrio dell’Ateneo svuotarono la loro valigia creando una vera e propria pioggia di carta che inneggiava alla “fede nella libertà e nell’onore” e alla “distruzione del terrore nazionalsocialista mediante la potenza dello spirito”. Una pioggia che fu la loro condanna a morte. Il custode avvertì la Gestapo e i due furono arrestati. Seguirono diversi interrogatori durante i quali, come ha raccontato Inge Scholl nel suo libro, i due fratelli si assunsero tutte le ‘colpe’ pur di salvare la vita degli amici. Ma insieme a loro il 22 febbraio (lo stesso giorno della sentenza) salì sul patibolo anche l’amico Christoph Probst, e poco tempo dopo furono condannati a morte anche il professor Huber (che stava preparando un settimo volantino), Willi Graf e Alexander Schmorell.
La notte prima di morire Sophie Scholl fece un sogno che raccontò alla sua compagna di cella.
“In una giornata piena di sole portavo a battesimo un bimbo che indossava una lunga veste bianca. Per giungere alla chiesa dovevo percorrere un ripido sentiero di montagna. Ma portavo in braccio il bimbo saldamente e con sicurezza. Improvvisamente si aprì davanti a me un crepaccio. Ebbi appena il tempo di deporre il bambino al sicuro al di là del crepaccio, poi precipitai nella voragine. Il bimbo simboleggia la nostra idea che si affermerà contro tutti gli ostacoli. Ci è stato concesso di esserne i pionieri, ma dobbiamo morire per essa prima di vederla tradotta in realtà”.
(Articolo scritto per ‘BonCulture’)