“Deve dipingere, Charlotte. Se sta soffrendo, deve esprimere quella sofferenza, deve vivere per creare, deve dipingere per non impazzire. Se vuole sopravvivere, deve dipingere la sua storia, perché è l’unica via d’uscita: deve far rivivere i morti“.
È merito del dottor Georges Moridis se oggi conosciamo Charlotte Salomon. Fu lui a spronarla a dipingere, a lui la giovanissima pittrice ebrea affidò la sua opera omnia poco prima di essere deportata ad Auschwitz, e fu sempre lui a consegnare quell’immenso patrimonio artistico (e storico!) nelle mani fidate dell’amica americana Ottilie Moore che lo restituì alla famiglia Salomon a guerra finita (oggi conservato allo ‘Joods Historisch Museum’ di Amsterdam). Fu lui, il medico, ad intuire che soltanto l’arte avrebbe potuto salvare quella ragazza dai suoi fantasmi, ma anche dall’oblio a cui condanna la storia certe volte. Charlotte Salomon, infatti, trascorse la sua breve vita (morì a soli 26 anni) lottando contro due spettri: la follia e l’essere ebrea in una Europa stretta nella morsa del Nazismo.
Nacque a Berlino nel 1917 in una famiglia ebrea benestante che si portava dietro un pesante fardello chiamato depressione. Ne aveva sofferto la zia da cui ereditò il nome di battesimo che si era tolta la vita poco prima della sua nascita, colpì sua madre che si lanciò da una finestra quando lei aveva solo nove anni, infine portò la nonna a suicidarsi nel 1940. Il rischio, dunque, era quello che anche la giovane Charlotte rimanesse vittima del male oscuro. Un rischio reale perché legato non soltanto ad un fattore ereditario, ma anche storico e sociale. A partire dalla fine dell’Ottocento, il tasso di suicidi fra gli ebrei tedeschi aveva subito una impennata. Tutta colpa di una integrazione mai realizzata del tutto e che portava gli Ebrei a vivere una esistenza a metà, divisa fra quella ebraica (nascosta) e quella tedesca (voluta, ma non accettata). E la famiglia Salomon non era da meno: basti pensare, ad esempio, che a casa di Charlotte si faceva l’albero di Natale.
L’ascesa del nazionalsocialismo fece il resto. Nonostante le leggi razziali volute da Hitler, nel 1935 Charlotte (che si era appassionata alla musica e all’arte grazie alla amata-odiata matrigna Paula Lindberg, un contralto di fama) riuscì ad entrare alla Scuola Nazionale dell’Accademia di Belle Arti di Berlino, ma a causa del clima antisemita molto presto fu costretta ad abbandonare gli studi, e dopo una breve detenzione del padre nel campo di concentramento di Sachsenhausen si rifugiò dai nonni materni che erano ospiti di Ottilie Moore a Villefranche-sur-Mer nel sud della Francia (mentre il padre e la seconda moglie fuggirono in Olanda). Proprio in Francia Charlotte prese coscienza di quello che sarebbe stato il suo destino: vide la nonna prima tentare il suicidio e poi riuscire a togliersi la vita, fu internata con il nonno nel campo di concentramento di Gurs (la detenzione durò poco a causa delle precarie condizioni di salute dell’uomo) e dallo stesso nonno apprese la vera storia della sua famiglia fatta di vite spezzate. Un fardello troppo grande per una ragazza di soli 23 anni che aveva davanti a sé due possibilità: accettare il copione che sembrava essere stato già scritto per lei, oppure ribellarsi e diventare, per quanto possibile, la regista della propria sorte. Scelse quest’ultima via e per cercare di curare quel male (psicologico, ma anche storico e sociale) che adombrava la sua esistenza e sopravvivere si affidò alla cosa che sapeva fare meglio, ovvero dipingere.
Si rifugiò in una stanza in affitto e ‘scrisse’ la sua autobiografia intitolata ‘Leben? Oder Theater? Ein Singespiel’ (‘Vita? O Teatro? Un dramma in musica’): 769 dipinti con la tecnica del guazzo (gouache in francese, tecnica simile alla tempera ma dall’aspetto più opaco) che richiamavano alla memoria le opere di Van Gogh, Chagall e Munch, accompagnati da parole e annotazioni musicali. Charlotte creò una sorta di proto-graphic novel in cui raccontò la sua vita: l’infanzia, il suicidio della madre, l’ascesa di Hitler, l’internamento del padre, l’amore impossibile per Alfred Wolfsohn (insegnante di canto e amante della propria matrigna), l’esilio forzato dalla sua amata Berlino. Il tutto utilizzando esclusivamente tre colori (rosso, blu e giallo), scrivendo i commenti in terza persona, mescolando la realtà con la fantasia (utilizza spesso degli pseudonimi per i protagonisti delle sue storie). Affidò il finale del suo ‘dramma musicale’ ad una tavola molto particolare: “Charlotte si ritrae di spalle, in ginocchio di fronte al mare, con la mano sinistra che regge il foglio, il braccio destro libero di muovere il pennello sulla carta, che in realtà non c’è, perché al posto del foglio c’è il mare stesso. Sulla sua schiena è dipinto il titolo ‘Leben oder Theater’, Vita o Teatro, senza il punto interrogativo, come se non solo la sua vita, ma il suo stesso corpo fosse diventato l’opera” (Katia Ricci).
Fece in tempo a raccogliere tutti i fogli in una valigia e a consegnarli al dottor Moridis affinchè li custodisse (“E’ tutta la mia vita” gli spiegò). Il 10 ottobre del 1943, a seguito di una delazione, fu messa su un treno insieme all’uomo che aveva sposato tempo prima – Alexander Nagler – e deportata ad Auschwitz dove il giorno stesso del suo arrivo morì in una camera a gas. Aspettava un bambino.
(Articolo scritto per ‘BonCulture’)