‘I martiri di G.’: capitolo V

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«Non dovete affatto sminuire la portata di quello che avete fatto in tutti questi anni. Diteglielo anche voi, professore» aveva detto con foga Eliano.

Insieme al dottor Camillo Spoleto, stimato professore universitario e Rettore della Facoltà di Medicina, era andato a far visita al dottor Ferraris. Non era raro che i tre si incontrassero per fare due chiacchiere davanti ad un bicchiere di brandy. Ma questa visita era diversa. A volerla fortemente era stato proprio il giovane studente: aveva sentito voci sempre più insistenti che volevano un imminente ritiro dalla professione da parte del Ferraris. Eliano, quindi, aveva chiesto al suo professore, grande e fidato amico del medico, di convincerlo a tornare sui suoi passi.

«Il ragazzo ha ragione. Non puoi tirarti indietro al primo insuccesso. Sai come si dice… perdere una battaglia non significa perdere la guerra» disse quasi distrattamente il Rettore mentre lucidava le lenti dei suoi occhiali da vista. Li inforcò e una espressione di grande soddisfazione sottolineò il piacere che provava a rivedere il mondo di nuovo in maniera nitida.

«Eh, questa volta credo che la guerra sia davvero finita» sospirò Marco Tullio Ferraris in piedi davanti alla finestra del salotto della sua abitazione.

«Non è possibile, mi rifiuto di sentirvi dire una cosa del genere» esclamò con una certa foga Eliano alzandosi di scatto dalla poltrona.

Guardò il professore universitario che gli lanciò uno sguardo ammonitore. Il giovane studente capì di aver osato troppo e sentì il suo viso arrossarsi per la vergogna. Quando però si accorse che le sue parole non avevano scalfito in alcun modo il dottore che continuava a fissare qualcosa al di là della finestra, si animò di nuovo e più prudente coraggio.

«Tutti sanno quanto tempo avete dedicato alla cardiologia, quante difficoltà avete incontrato e superato. Alla fine, però, i risultati sono stati straordinari e hanno permesso al conte Monaldi di vivere ancora un anno grazie all’intervento che avete fatto tre anni fa» disse Eliano con tono pacato e cercando con lo sguardo l’approvazione del Rettore Spoleto che gli sorrise compiaciuto come a volergli dare ulteriore coraggio nel tentare di convincere il medico.

Per qualche istante la stanza piombò in un innaturale silenzio, poi il dottor Ferraris scosse il capo.

«Mi mancano gli strumenti» sentenziò.

«Ma non dire sciocchezze, questa è la scusa peggiore che potevi inventare. Sai benissimo che l’Università è a tua completa disposizione. È che a te piace essere pregato» lo canzonò Camillo sornione.

Il suo vecchio amico aveva centrato il bersaglio. Il dottor Ferraris accennò un sorriso. Poi versò del brandy in tre bicchieri su un tavolino sul quale erano in bella mostra delle calle in un pesante vaso bianco decorato con foglie stilizzate blu. I tre bevvero. I due medici erano soddisfatti, Eliano era visibilmente sollevato. Dopo il primo sorso i suoi occhi si posarono sulla porta dello studio del dottore. Da quando frequentava quella casa si era chiesto spesso cosa mai nascondesse quella stanza. A nessuno era permesso entrare e il padrone di casa si era sempre mostrato particolarmente geloso delle sue ricerche custodite dietro quella porta. Voleva saperne di più, voleva azzardare a fare qualche domanda, ma non ne ebbe il tempo. I suoi pensieri furono interrotti dal rumore di qualcosa che andava rovinosamente in frantumi seguito da un grido soffocato.

Vide una smorfia di dolore sul volto del dottor Ferraris. A terra, davanti ai suoi piedi c’erano le calle e i resti del vaso che le conteneva e che, per qualche ragione sconosciuta ad Eliano, era caduto dal tavolino.

Eliano e il professor Spoleto corsero a sorreggere il medico che cominciava a barcollare.

«Fatemi sedere» disse a fatica il dottor Ferraris che zoppicante fu portato dai suoi ospiti verso una poltrona. Il dolore al piede sul quale era caduto il pesante vaso era tale da impedirgli di respirare. In quel momento qualcuno bussò timidamente alla porta della stanza. Era Eligio.

Il ragazzo entrò, ma ad accorgersi della sua presenza fu solo il professore.

«Mio Dio, cosa ti è successo figliolo?» gli chiese il rettore che aveva notato la vistosa ferita sulla sua fronte.

Il ragazzo non rispose e abbassò lo sguardo, come se provasse vergogna per quello che gli era capitato.

«Va’ a prendere dell’acqua e raccogli quel che resta del vaso» gli ordinò il padrone con la voce rotta dal dolore e senza degnarlo di uno sguardo.

Eligio uscì dalla stanza. La testa gli faceva molto male e il suo animo era turbato. E camminare, in qual momento, gli sembrava ancora più faticoso.