Eduardo e gli affetti familiari da ricomporre: Natale in casa Cupiello

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La genesi.

Eduardo la definì “un parto trigemino con una gravidanza di quattro anni”. I tre atti della sua commedia Natale in casa Cupiello, infatti, nascono uno alla volta e in anni diversi, mentre il copione nel corso del tempo si trasforma significativamente a seguito di un costante e sapiente lavoro applicato non solo al testo ma anche ai personaggi.

Nel 1931 la Compagnia del Teatro Umoristico mette in scena un atto unico corrispondente all’attuale secondo atto. Si tratta di un semplice sketch da avanspettacolo, una farsa dall’intreccio molto scarno perché la vicenda è ridotta all’essenziale, il tema del pranzo natalizio tanto atteso per riunire la famiglia e sempre rimandato resta ancora in secondo piano, e personaggi come Niculino e Ninuccia sono ancora privi di un carattere ben definito. Il ritmo è quello tipico di una commedia degli equivoci: Luca Cupiello, un padre di famiglia svagato e di poca autorità invita al pranzo di Natale l’amico del figlio ignorando che egli sia l’amante della figlia. Il dramma però non ancora esplode perché l’azione ruota esclusivamente intorno al bisticcio fra Tommasino e lo zio Pasqualino per i soldi che il primo ruba al secondo, al già presente tormentone del “Nun me piace ‘o Presepio!” e alle gags della lettera di Natale e dei capitoni fuggiti.

Durante la stagione teatrale 1932-1933 al Teatro Sannazzaro, Eduardo ripresenta il Natale, ma arricchito di un primo atto (la commedia), una sorta di prologo che introduce lo spettatore ad un’osservazione più accurata dell’ambiente familiare di Luca. Il nuovo copione non si presenta molto diverso da quello precedente perché conserva il carattere caricaturale dei personaggi e il tono farsesco della commedia grazie ai continui accenni (successivamente tagliati) alle abitudini furtive di zio e nipote, nonché alla famosa scena del battibecco fra i due perché Tommasino si è venduto scarpe, cappotto e bretelle del parente. I primi due atti, infatti, sono accumunati dal fatto che vengono alla luce negli anni in cui Eduardo abbandona il Varietà per dedicarsi alla stesura di testi “aperti alle variazioni della recita, alle improvvisazioni, all’aggiunta di lazzi o gags”.

Alquanto diverso, invece, è il terzo tempo della commedia. In esso è subito evidente “un perfetto controllo dei tempi e una sottile miscela di comico e tragico” che mostrano una piena padronanza della tecnica drammaturgica. Viene rappresentato per la prima volta il 9 aprile del 1934 a Milano al Teatro Olimpia. È la “tragedia moderna” che concentra la sua attenzione su Luca Cupiello che non ha retto il colpo che gli è stato inferto dalla rivelazione che sua figlia ha un amante (e che lui, quindi, non sa essere un buon pater familias). Ma dopo lo spettacolo di Milano e fino alla stagione 1936-37 la commedia viene rappresentata nella versione di uno o due atti: il finale in cui Luca moribondo fa giurare eterna fedeltà ai due amanti è un duro colpo per una società perbenista che pone tra i suoi fondamenti (almeno all’apparenza) il culto della famiglia. E così bisognerà aspettare il 21 dicembre del 1936 per assistere alla messa in scena al Teatro Mercadante di Napoli della commedia nella sua interezza seppur monca del giuramento dei due amanti al capezzale del protagonista.

In realtà è tipico del modo di lavorare di Eduardo trasformare il testo. Durante le prove, infatti, gli attori non hanno tra le mani un copione definitivo, ma una sorta di canovaccio in parte già riempito, ma sempre aperto a lasciarsi influenzare dall’esperienza scenica, da battute e situazioni che nascono in itinere e che il regista-autore regola e fissa nel corso delle prove. Il copione però, non viene soltanto aggiornato con le improvvisazioni nate in scena, ma spesso viene anche adattato alle esigenze della compagnia con l’eliminazione o l’aggiunta di personaggi e battute in base al numero e alle caratteristiche fisiche degli attori. Basti ricordare, ad esempio, che il numero dei casigliani del terzo atto si allarga o si restringe dalla sola Carmela dell’edizione del ’43 ai tredici dell’edizione radiofonica del ’59 fino ai sette della versione televisiva e dell’ultima e definitiva edizione Einaudi. Oppure il caso di una battuta che figura soltanto nei primi copioni quando ad interpretare il ruolo di Concetta è la segaligna Tina Pica. Sul finire del primo atto la donna riavutasi dal malore sente Luca-Eduardo esclamare “Chella è forte, è nu tipo asciutto, io credo ca chesta s’è talmente seccata can un more cchiù”. Battuta che ovviamente viene eliminata quando ad interpretare il ruolo di Concetta è Titina De Filippo.

Nel 1944, con la separazione dei due fratelli De Filippo, Natale in casa Cupiello subisce una battuta d’arresto, una sorta di pausa di riflessione che dura fino alla stagione 1956-57 quando la commedia ritorna in scena, ma in una veste nuova e più matura. Si è lasciata alle spalle le caratteristiche della farsa: la scena e l’interpretazione si sono arricchiti di particolari come le calze di lana emblema della società moderna mistificata (perché più si lavano e più si allargano e si allungano) o l’impossibilità a pronunciare il verbo ‘riunirsi’, mentre la recitazione si è arricchita di silenzi: l’autore ha imparato che si può fare teatro anche senza parlare. Non solo. La Seconda Guerra Mondiale trasforma i giorni pari in dispari.

Luca Cupiello, l’inetto pater familias fuori-ruolo.

Anna Barsotti definisce Natale in casa Cupiello come il “percorso di un’anima dall’illusione alla disillusione” che sfocia nella “separazione definitiva dell’interiorità dal contesto inadeguato del mondo esterno”. È lo scontro di due mondi incompatibili: quello poetico del protagonista e quello prosaico che lo circonda. Luca Cupiello è uno svagato e inetto pater familias perennemente fuori-ruolo e fuori-tempo (a tre giorni dal Natale la costruzione del Presepe è ancora in alto mare!), il candido della situazione che ha una visione serafica del mondo e ignora l’esistenza del male, il folle non intonato con il resto della famiglia perché si dedica esclusivamente alla preparazione della Natività senza rendersi conto del dramma che si sta consumando in casa. Intorno a lui vi sono persone che non gli prestano ascolto in alcun modo: la moglie Concetta lo ignora, il figlio Tommasino è disobbediente e la figlia Ninuccia non risponde alle sue domande circa il motivo per cui ha litigato con il marito.

Dunque nella sua non vi sono più quell’amore filiale e coniugale che dovrebbero regnare in ogni famiglia, e proprio questa mancanza lo spinge ogni anno a ripetere il rito della costruzione del Presepio (che è, di contro, il simbolo per eccellenza della famiglia unita e amorevole). In questo modo il protagonista si illude di poter ristabilire l’ordine, ma è chiaro fin dalle prime battute che la sua famiglia è completamente sorda al suo richiamo.

Come spiega lo stesso Eduardo, “intorno a Luca si va creando un’atmosfera indifferente e gelida, man mano che le montagne di cartapesta si popolano ci capanne e ‘casarelle’, e diventa addirittura ostile quando, a opera compiuta, egli chiede timidamente alla famiglia un po’ di adesione”[1]. Difatti, per la moglie Concetta è solo “’na spesa e nu perdimento di tempo inutile” mentre la figlia Ninuccia in uno scatto di ira lo fa a pezzi (e non è un caso che a distruggerlo sia proprio lei che sta minacciando l’unità familiare con la fine dell’amore per il marito e la presenza di un amante: la distruzione del Presepe corrisponde alla distruzione della famiglia).

Infine c’è il figlio Tommasino, che è l’unico capace di turbare intimamente Luca perché la sua dispettosa indifferenza (più che gli atteggiamenti di moglie e figlia) fa temere la distruzione morale definitiva del mito del Presepio. Tommasino, infatti, rappresenta il futuro pater familias che, nella testa di Luca, dovrebbe conservare e tramandare gli antichi valori ai quali, però, il giovane pare preferire ben altro (“’a zuppa ‘e latte” e i furtarelli ai danni dello zio). Luca cercherà addirittura di ‘comprare’ l’approvazione del figlio con maldestri ed inefficaci tentativi di corruzione quali un nuovo guardaroba e la complicità nelle sue abitudini furtive, ma sarà tutto inutile. Alla domanda “Te piace ‘o Presebbio?” Tommasino risponderà sempre con un convinto “No”. Si tratta dello scontro fra generazioni tanto caro a Eduardo.

Il rifiuto del Presepe per Luca è una grave colpa perché significa rinunciare all’amore (per questo caccia di casa il figlio non per i furti per i quali sarebbe anche disposto a chiudere un occhio, bensì per aver ribadito che il Presepe non gli piace!). Si tratta di qualcosa di inconcepibile per lui che, quindi, non sentendosi più parte integrante della realtà che lo circonda, decide di estraniarsi riversando tutte le sue attenzioni solo ed esclusivamente sulla rappresentazione della Sacra Famiglia che, al contrario, incarna perfettamente i suoi ideali. Il Presepe, quindi, diventa una sorta di anti-linguaggio che inevitabilmente isola Luca dal resto del mondo abituato a parlare una ‘lingua diversa’. Tanto è vero che, quando Ninuccia sente il bisogno di confidare le sue pene, lo fa con la madre mentre “Luca tende l’orecchio ansioso di raccogliere almeno una di quelle frasi che lo possa mettere in condizione di ricostruire il filo misterioso dell’accaduto”. Ma il tentativo fallisce e Luca ribadisce la sua estraneità nei confronti della famiglia che lo circonda che non riconosce e non sente più sua (“fra madre e figlia è un altro linguaggio!”), contrariamente a quella del presepe.

Ma alla fine Luca deve fare i conti con la triste realtà. Come altri personaggi delle sue commedie successive, reagisce al crollo del suo mito familiare con la malattia, l’immobilità, la volontaria ricerca dell’assenza e della morte. Nel terzo brevissimo atto, infatti, lo troviamo a letto morente e semiparalizzato perché “la realtà dei fatti (la figlia ha un amante, ndr) ha piegato come un giunco il provato fisico dell’uomo che per anni ha vissuto nell’ingenuo candore della sua ignoranza”. Luca vedeva il mondo attraverso gli occhi della sua innocenza e quando lo costringono ad accorgersi che esso non è come lui lo immaginava, si sente annientato. Nonostante ciò, continua testardamente a credere nel presepe e a lottare per ristabilire la sua idea di famiglia. Il protagonista adesso abbandona il refrain “te piace ‘o Presebbio” per sostituirlo con “Niculino è venuto?” che è un’altra idea fissa nonché una ulteriore spia di quell’antilinguaggio che ha lo ha caratterizzato per l’intera durata della commedia e che ci fa intuire che solo quando vedrà ristabilita la pace in casa sua egli potrà chiudere gli occhi per sempre. Una pace che è possibile ripristinare solo riunendo la famiglia e ricomponendone l’unità, anche a costo di ricongiungere i due amanti (con un rovesciamento umoristico che sembra dirla lunga sul valore della fedeltà coniugale della società a lui contemporanea) perché “nel delirio della febbre ha ravvisato nelle sembianze di Vittorio quelle di suo genero Nicolino”. Questo, difatti, è l’unico momento di tutto il terzo atto in cui Luca esce dal suo stato di torpore e mostra “un lampo di gioia negli occhi” mentre “il suo volto si rischiara” e “riesce a parlare con più forza e chiarezza” per benedire i due giovani.

Ma questo non basta per realizzare il sogno di unità familiare che il protagonista ha tanto inseguito nei primi due atti. Il “Presepe grande come il mondo”, infatti, si palesa ai suoi occhi come una “visione incantevole” soltanto quando riesce a tirare il figlio nell’orbita dei suoi ideali. Prima che cali il sipario Luca ha il tempo di chiedere trasognato per l’ultima volta “Tommasi’, te piace ‘o Presebbio?”, e il figlio, che “è il solo a comprendere tutta la tragedia” gli risponde finalmente “Sì” sancendo in tal modo la sua crescita. Tommasino è diventato uomo, prenderà in mano le redini della famiglia che, se fino a quel momento era stata di tipo matriarcale per l’inettitudine di un padre mancato, ora torna ad essere patriarcale. Le ultime parole di Luca (e della commedia) sono “Ma che bellu Presebbio! Quanto è bello!” perché morendo Luca ha la visione di quell’universo in cui aveva creduto e che ora sembra realizzarsi grazie alla ricomposizione del nucleo familiare. Un mondo contraddistinto da quella cultura dei sentimenti che ha sempre cercato di trasmettere ad una nuova generazione che egli voleva “assimilare” alla propria (dunque Luca non è un inetto totale poiché tenta di imporre una sua auctoritas seppure singolare e per qualcuno anacronistica). Una cultura dei sentimenti che, come abbiamo visto, ha uno suo specifico linguaggio, un parlare speciale che lo (auto)esclude dai rapporti intersoggettivi con il prossimo. Però questo “Presepe grande come il mondo” è un miracolo visto solo da lui perché nel mondo il male continua ad avere il sopravvento.

Tuttavia il finale di Natale in casa Cupiello si presta ad una doppia lettura.

Scrive Gennaro Magliulo:

Quando il male che è in tutti avrà contaminato anche Luca (allorchè egli apprende che sua figlia ha un amante), allora cade. Non fiaccato, ma distrutto come bontà, diventa cattivo anch’egli. Nella sua infermità sa trovare le parole per ridicolizzare l’opera del medico, distrugge ogni possibilità di colloquio con i figli: nasconde le scarpe sotto le lenzuola bollando le ruberie di Tommasino, invoca Nicolino rinfacciando l’infedeltà a sua figlia, dinanzi agli estranei si ostina a scambiare Vittorio con Nicolino. Impaniato dal male che ormai conosce, lo impone a quanti, soltanto ora – ma per poco tempo – sarebbero disposti ad abbandonarlo: benedice l’adulterio di Vittorio e Ninuccia. Ed anche alle ultime battute, quando chiede per l’ennesima volta al figlio ‘Ti piace il presepe’ lo fa utilizzando la forza della sua debolezza. Perché adesso sa che Tommasino dovrà dirgli di sì. E le parole di Luca ‘quanti presepi, quanti presepi’ stanno forse a significare non il raggiungimento di una tranquillità nella morte (il personaggio non muore), ma ancora una spietata constatazione: quanti presepi, quante favole, quante bugie questo volermi bene ora che, per essermi arreso, non mi si può più lottare.[2]

 

Se Magliulo, dunque, il fanciullesco atteggiarsi di Luca denuncia la “desolante situazione di un’umanità che si balocca con le illusioni mentre il dramma è alla porta”, di contro per Franca Angelini a vincere è l’amore, perché “contro il pregiudizio della famiglia” che vorrebbe il sacrificio del vero amore provato dai due amanti in nome di quello coniugale, Luca “unisce alla mano della figlia quella non del marito, ma dell’amante”.

Una cosa è certa: Luca Cupiello d’ora in poi sarà sempre presente nella produzione eduardiana. Che si chiami Ferdinando Quagliuolo (Non ti pago, 1940), Gennaro Jovine (Napoli milionaria, 1945) o Alberto Saporito (Le voci di dentro, 1948) poco importa perché si tratterà sempre di un uomo “sopraffatto da un mondo che egli non sa combattere”, di “un personaggio antichissimo noto al pubblico napoletano” che “sotto l’aspetto dell’uomo semplice osa fare quello che gli altri non osano e dire verità che la società ha messo a tacere”, di quella “maschera pulcinellesca” che “attraverso i secoli e con l’evolversi del teatro, ha acquisito caratteristiche più complesse e più umane e che, liberatasi dalla sua primitiva ed ingenua comicità, è capace ormai di esprimere la sua millenaria sofferenza”. Un uomo che (come scrive la Coen Pizer), seppur “travolto dalla sventura”, attraverso un “finale patetico” ci mostra che “gli affetti e i sentimenti sopravvivono”.

[1] Eduardo De Filippo, ‘O Canisto, Ed. Teatro San Ferdinando, Napoli 1971.

[2] Gennaro Magliulo, Eduardo De Filippo, Cappelli Editori, Bologna 1959.