Cinquemila euro per le donne in condizioni economiche difficili che scelgono di non interrompere una gravidanza. Se ne era parlato in Regione dove era pronta pure la delibera. Ma poi c’è stato il dietrofront. “Sospendiamo la delibera, non ancora pubblicata, per avviare un confronto con tutte le realtà, ripristinare la corretta informazione per non far diventare un tema così importante oggetto di attacchi strumentali” aveva spiegato l’assessore regionale al Welfare Rosa Barone. Accadeva ad aprile.
Ad oggi non se ne parla più. Probabilmente perché è in corso il “confronto”, magari senza clamore per evitare quegli “attacchi strumentali” tanto temuti. Supposizioni, le nostre. Però una cosa per noi è certa: la notizia di quei cinquemila euro ci ha un po’ destabilizzati. Perché negli ultimi tempi ci eravamo abituati a sentir parlare di “riconoscimento delle capacità giuridiche del concepito”, dell’istituzione di una giornata per la “tutela della vita nascente”, ma non di “interventi di tutela della donna in gravidanza in situazione di difficoltà”. Insomma, questa volta l’asse si è spostato. Il focus è stato posto sulla donna e non sul nascituro. Per una volta si è cercato di ‘pensare al femminile’. Buoni i presupposti, ma è questa la strada da percorrere? Una gravidanza portata avanti vale cinquemila euro? E’ tutto lì il nodo della matassa? Cerchiamo una risposta.
E per averla partiamo da un dato ufficiale: gli aborti in Italia sono in calo. Lo dice la ‘Relazione annuale 2022 sull’attuazione della legge 194/1978’ del Ministero della Salute. Peccato che i dati siano un po’ datati perché si riferiscono al 2020. Ma ce li facciamo andare bene perché sono gli unici e sono pur sempre un punto da cui partire. Nell’anno della pandemia, quindi, le interruzioni sono state 66.413, ovvero il 9,3% in meno rispetto al 2019 (-71,6% rispetto al 1983). Ma il dato va interpretato in un contesto molto più ampio.
Ed è la stessa relazione che ci viene incontro spiegando che “la riduzione del numero di IVG (interruzione volontaria della gravidanza, ndr) osservata negli ultimi anni potrebbe essere in parte riconducibile all’aumento delle vendite dei contraccettivi di emergenza”. Tre determine dell’Aifa, infatti, hanno eliminato l’obbligo di prescrizione medica per l’Ulipristal acetato (ellaOne), noto come ‘pillola dei 5 giorni dopo’ (G.U. n.105 dell’8 maggio 2015) e per il Levonorgestrel (Norlevo), ovvero la ‘pillola del giorno dopo’ (G.U. n.52 del 3 marzo 2016) per le donne maggiorenni. La terza determina Aifa ha, infine, eliminato l’obbligo di prescrizione per l’Ulipristal acetato anche per le minorenni (G.U. n.251 del 10 ottobre 2020). Verosimilmente quel -9,3% va riconsiderato alla luce del fatto che dalla stessa relazione emerge che oltre un terzo delle interruzioni volontarie di gravidanza sono fatte con la pillola abortiva (scelta dettata anche dalle criticità organizzative dei servizi IVG durante la pandemia).
Preso atto dei dati, vogliamo capire perché una donna decide di interrompere una gravidanza. Ma dove trovare la risposta al nostro interrogativo? Ci viene in aiuto, anche in questo caso, la Relazione del Ministero che evidenzia come poco meno della metà delle donne che vogliono abortire si rivolga al consultorio familiare per il rilascio della certificazione necessaria alla richiesta di Ivg (la possono firmare anche il medico di famiglia e le strutture socio-sanitarie). Si tratta di “un documento firmato anche dalla donna, alla quale viene rilasciata una copia, con il quale si attesta lo stato di gravidanza e la richiesta di interrompere la stessa, oltre all’invito a soprassedere per sette giorni (art. 5, L. 194/78)”. Trascorso tale periodo la donna può presentarsi presso le sedi autorizzate per ottenere l’interruzione di gravidanza. Ma può anche decidere di non farlo.
E allora parliamo con la psicologa Anna Michelina d’Angelo, che ha lavorato per il consultorio di Orta Nova e che ci svela un’amara realtà: la maggior parte delle donne che arriva in consultorio, ha già deciso di non tenere il bambino. Eppure quella dovrebbe essere la nave sicura con cui partire per il viaggio verso la maternità in compagnia di un equipaggio di professionisti: dall’ostetrica al ginecologo, dallo psicologo all’assistente sociale (ove la situazione lo richieda). La futura mamma che si affida ad un consultorio, infatti, viene seguita per quanto riguarda gli esami da effettuare periodicamente, viene formata e informata grazie gruppi di accompagnamento alla nascita. E può contare sull’aiuto – sia medico che psicologico – anche nella fase immediatamente successiva al parto. Tutto in maniera gratuita. Ma evidentemente non basta.
“Quando una donna arriva con le idee ben chiare – ci spiega la dottoressa d’Angelo – non è sempre per un motivo economico: in quel caso, infatti, c’è un margine di confronto per cercare una soluzione magari coinvolgendo anche i servizi sociali del comune. Nel corso della mia attività ho potuto constatare che, se una donna è convinta di interrompere la gravidanza, è perché è alla terza o quarta maternità e ha difficoltà ad accettarne un’altra, o perché sta vivendo una relazione difficile che non garantirebbe una stabilità emotiva, oppure perché si sta realizzando professionalmente e non vuole affrontare una gravidanza. Almeno non in quel momento”.
E poi c’è la questione del ricorso all’IVG da parte delle minorenni che, seppur in diminuzione (il 2,4% del totale nel 2020 con un -0,2% rispetto all’anno precedente) resta un aspetto da attenzionare: nel loro caso la gravidanza spesso “è frutto di una bravata”. Per loro, tra l’altro, l’iter per l’interruzione è diverso. È necessario l’assenso da parte di chi esercita la potestà o la tutela. Tuttavia se quest’ultimo è difficilmente consultabile o se la minorenne non vuole informarlo (capita che ci sia il timore di confessare una gravidanza ai genitori), si ricorre al giudice tutelare.
Insomma, è chiaro che il fattore economico – quello su cui aveva focalizzato l’attenzione la Regione Puglia – non è il solo ago della bilancia. Un ruolo altrettanto importante è svolto da quello sociale, ma anche da quello medico-sanitario. Da questa foto, infatti, emerge la necessità di spingere sull’informazione e sulla prevenzione. Perché è evidente che la contraccezione è un concetto per certi versi ancora astratto, conosciuto poco e male. Colpa probabilmente di un retaggio culturale che ancora considera la sessualità un tabu e fa gridare allo scandalo quando si parla di educazione alla sessualità e alla contraccezione in certi ambienti.
E poi c’è la questione delle relazioni instabili e malsane che una donna dovrebbe essere aiutata a riconoscere e a scrollarsi di dosso il prima possibile, e quella della maternità che frena la carriera delle donne perché la gestione del bebè è quasi totalmente a loro carico per mancanza e poca accessibilità ai servizi per la prima infanzia. Insomma, i soliti e ben noti problemi che – a quanto pare – non riescono a trovare una soluzione.
Certo, nessuno nega che ci siano tante donne che rinunciano alla gioia della maternità perché non possono permettersela economicamente. Ma anche in quel caso, i cinquemila euro risolverebbero il problema o sarebbero un semplice palliativo, tra l’altro di breve durata considerate le spese che una famiglia deve sostenere per il primo anno di vita di un bambino e che partono da un minimo di 7mila euro? E comunque non dimentichiamo che ad interrompere una gravidanza sono anche donne che non hanno problemi economici.