‘I martiri di G.’: capitolo I

Era un freddo pomeriggio d’inverno. Nella piccola cittadina di G. il cielo era coperto da nubi grigie minacciose che impedivano ai raggi del sole di illuminare il paesaggio. Le vie erano deserte e ogni cosa aveva perduto i suoi colori: strade, case e persino gli alberi ormai spogli da tempo sembravano riflettere come in uno specchio il colore plumbeo delle nubi. Ad accompagnare questo pallore vi era anche un silenzio innaturale che dava a G. l’aria di un paese abbandonato. Un silenzio insolito che permetteva di riuscire a sentire distintamente ogni singolo battito del proprio cuore che, spaventato da quello scenario, correva all’impazzata quasi volesse balzare fuori dal petto.
Era esattamente questa la sensazione che provava Eliano Cortese. Studente di medicina arrivato da poco, alloggiava nell’unica e modesta pensione di G. Era agitato, non per l’atmosfera desolata ma perché era impaziente di arrivare laddove con ogni probabilità avrebbe trovato gran parte degli abitanti di G.
Uscì di corsa dalla pensione e imboccò la stradina che portava all’ingresso della cittadina. Doveva raggiungere quella che la gente del posto aveva ribattezzato ‘la grotta dei martiri’, un luogo molto conosciuto, ma dal quale ci si teneva alla larga. Tutta colpa di una storia.

Si raccontava che quella grotta, soltanto diciannove anni prima, era stata teatro di fatti inquietanti. Il folklore locale, infatti, voleva che quell’antro fosse una delle porte per gli Inferi e che proprio lì fosse stato stretto un patto di sangue fra Lucifero e il conte Ubaldo della Rocca, grande benefattore e uomo assai stimato anche perché aveva finanziato la costruzione dell’orfanotrofio di G. Il conte aveva ottenuto inesauribile ricchezza in cambio della sua anima e della vita di giovani. Era il 24 febbraio del 1871 quando in quella grotta fu ritrovato il corpo senza vita della figlia appena adolescente del calzolaio di G. Da quel giorno la cittadina fino ad allora sonnolenta, si ritrovò in un incubo e dovette fare i conti con quello che sembrava un diabolico rituale e che stava portando via alla comunità delle vite innocenti. Nessuno riuscì mai a cogliere sul fatto l’assassino. Nessuno seppe dare una spiegazione a queste abominevoli azioni e un nome all’omicida fino a quando, dopo 9 lunghi mesi di terrore, i crimini cessarono. Ma il prezzo da pagare fu altissimo.
Era credenza ormai entrata nel bagaglio storico popolare di G. che Lucifero avesse chiesto come prima vittima sacrificale la giovane promessa sposa del conte. Quest’ultimo, però, era riuscito a salvare la vita della fidanzata barattandola con la sua verginità. Nove mesi dopo e con sommo stupore di tutti, persino del consorte a cui aveva sapientemente nascosto la gravidanza, la fanciulla diede alla luce un bambino dai capelli fulvi. La vista di quel neonato – si racconta a G. – fece perdere la testa al conte che accecato dall’ira si avventò sulla ragazza brandendo un coltello. La colpì più volte al ventre e poi le inferse il colpo mortale al cuore. Ma il padrone degli inferi, non ancora soddisfatto da quel crimine efferato, decise che per il conte era arrivato il momento di saldare il suo debito. Con il coltello grondante sangue ancora in mano, l’uomo si svegliò da quello stato sonnolento di follia che gli aveva offuscato la mente negli ultimi nove mesi e oscurato la vista il tempo necessario per commettere un brutale assassinio. All’improvviso dinanzi ai suoi occhi vide chiaramente il corpo dell’amata privo di vita che giaceva in una pozza di sangue. Gli sembrava uno spettro arrivato dall’aldilà per terrorizzarlo. Ma lo sgomento lasciò presto il posto alla disperazione e poi ad una rabbia incontenibile. Le imprecazioni contro un dio che aveva assistito ad un tale scempio senza intervenire gli diedero la certezza della sua eterna dannazione e dell’estinzione del suo debito.

Si uccise. Del neonato dai capelli fulvi non si seppe mai più nulla.

 

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