“Non piangere per me, Argentina. La verità è che non ti abbandonerò mai anche se vi sarà forse più difficile vedermi. Io sono l’Argentina e lo sarò per sempre”.
(“Eva’s Final Broadcast” dal musical ‘Evita’)
Eva Peron fu davvero l’Argentina. Il popolo l’amò tantissimo perché era una di loro. E l’Argentina continuò ad amarla e a venerarla quasi fosse una Santa anche dopo la sua morte avvenuta il 26 luglio del 1952 a causa di un cancro. Lo dimostra il fatto che il suo corpo imbalsamato fu esposto pubblicamente in una bara di vetro per quindici giorni: tutti volevano salutare per l’ultima volta la ‘Madonna dei descamisados’.
Aveva carisma, sapeva come prendere il suo popolo e portarlo dalla sua parte (che era quella del marito). Per questo i militari e gli stessi alleati la temevano e fecero pressione su Juan Peron affinché non la facesse candidare alla vicepresidenza del suo secondo mandato.
E per questo, forse, la temeva anche il consorte. I media, complice il famoso musical firmato da Tim Rice e Andrew Lloyd Webber, ci hanno trasmesso l’immagine di un grande amore fra Eva e Juan Domingo Peron. Ma probabilmente non è stato così. O almeno non negli ultimi tempi. Le cronache, infatti, raccontano di un marito che dormì in una stanza separata durante i mesi della malattia e di una madre e una sorella che furono le uniche persone presenti nel momento in cui la donna spirò.
E poi c’è un dettaglio inquietante proprio in merito al suo decesso: Eva Peron, tra maggio e giugno del 1952, subì una lobotomia. La notizia iniziò a circolare nel 2005 quando il neurochirurgo ungherese George Udvarhelyi dichiarò in una intervista di aver partecipato alla lobotomia di Eva Peron. Le prove, però, arrivarono soltanto nel 2011 grazie ad un neurochirurgo della Yale University Medical School, Daniel Nijensohn, che era riuscito ad entrare in possesso delle radiografie della first lady argentina (il 2011 è l’anno in cui cadde il segreto di Stato sulla morte di Evita) nelle quali si vedevano chiaramente dei segni di perforazione nel cranio.
Negli anni Cinquanta del secolo scorso, infatti, la lobotomia (intervento che tagliando le connessioni neurali del cervello con il lobo prefrontale andava ad interrompere le risposte emozionali) era una pratica molto diffusa per ridurre il dolore e per trattare malattie psichiatriche. Dunque, nel 2011 sembrava verosimile che una simile pratica fosse stata resa necessaria per allievare le sofferenze di Evita causate dal cancro che la stava consumando. Ma subito dopo le rivelazioni di Nijensohn si fece largo un’altra ipotesi sconvolgente: la lobotomia, che veniva impiegata anche per modificare il comportamento e la personalità in individui violenti e bellicosi, forse era stato il tentativo estremo del Presidente argentino di frenare il comportamento sempre più pericoloso della consorte e “prevenire una guerra civile, specialmente tra le due ali del peronismo”.
Negli ultimi mesi di vita la first lady, infatti, era diventata aggressiva e a tratti belligerante. Durante il suo ultimo discorso pubblico datato primo maggio 1952, in occasione della Festa dei Lavoratori, acclamata dal popolo aveva tenuto un violento discorso contro chi non condivideva il suo pensiero. Sul letto di morte aveva dettato quelle che poi divennero le pagine de ‘Il mio messaggio’, una sorta di diario-testamento in cui Evita esortava “il sacro fuoco del fanatismo” per “combattere l’oligarchia” e “contro quegli imbecilli che chiedevano prudenza”, ovvero i “nemici del popolo” “insensibili e ripugnanti” e “freddi come rospi e serpenti”. Non solo. La Madonna dei descamisados, poco prima di morire, aveva ordinato al Principe Bernhard d’Olanda all’insaputa del marito, ben 5000 pistole automatiche e 1500 mitragliatrici per armare i sindacati e creare vere e proprie milizie di lavoratori.
Tanto poteva bastare per infastidire i sostenitori di Peron che non avevano mai amato la moglie e soprattutto la popolarità di cui godeva presso il popolo. Evita, infatti, era capace di smuovere intere masse di lavoratori e lo aveva già dimostrato nel 1945 con le mobilitazioni di piazza per chiedere la liberazione del suo amato. E tanto potrebbe essere stato sufficiente per mettere Juan Peron nella condizione di cercare una soluzione all’atteggiamento sovversivo della moglie che avrebbe potuto costargli caro politicamente. Una soluzione chiamata, appunto, lobotomia.
Non è tutto. A far propendere per una sorta di ‘soluzione finale’ c’è anche la testimonianza di Manena Riquelme, confidente ed infermiera del medico che avrebbe praticato l’intervento (il neurochirurgo James Poppen). La donna, subito dopo la notizia shock di Nijensohn nel 2011, confermò che Evita subì una lobotomia, voluta dal marito dopo diverse ‘prove’ sui prigionieri di Buenos Aires e senza il suo consenso, e in una sala operatoria improvvisata con un servizio di sicurezza molto stretto. La donna, inoltre, rivelò che la first lady uscì viva dall’operazione, ma che subito dopo smise di mangiare e trascorse le ultime settimane in uno stato vegetativo che verosimilmente ne accelerò la morte.
Quasi sicuramente non conosceremo mai la verità. Se a conferma della lobotomia ci sono dei referti medici, sarà invece alquanto difficile smentire o meno il fine politico dell’operazione dal momento che le uniche due persone in grado di farlo (Juan Peron e il dottor Poppen) sono morte e sepolte.
Resta, però, una certezza: Evita resterà per sempre nei cuori del popolo argentino e continuerà ad ispirarlo e a spronarlo a combattere. Non a caso Tim Rice, nel brano ‘Your little body’s slowly breaking down’ dell’omonimo musical, alla first lady consapevole che sta morendo fa dire queste parole: “Anche i brutti periodi passano, certi giorni sto bene altri sono più difficili, ma ciò non vuol dire che dobbiamo abbandonare il nostro sogno. Mi hai mai vista sconfitta? Non dimenticare cosa ho passato e sono ancora qui”. Proprio come il popolo argentino.