“I want you(r like)”: la politica ai tempi di facebook.

Slogan, manifesti, piazze e incontri vis-à-vis. Una volta la politica era questo. Sì, una volta, perché oggi non è più così. La rottura con il passato ha una data precisa: il pomeriggio del 21 febbraio del 2014 quando l’allora segretario del PD Matteo Renzi, dalle stanze del Quirinale dove stava presentando la lista dei Ministri, per far sapere a popolo e stampa che aveva finito, twittò “Arrivo, arrivo! #lavoltabuona”. Ecco, quel tweet ha decretato la fine di un modo di fare politica e l’avvento di una sorta di zio Sam versione millenials che chiama il popolo alle armi con il suo “I want you” e scende in una nuova piazza: i social. Questo perché i tempi stavano cambiando e con essi anche la politica.

Ma attenzione: il cambiamento non significa sempre evoluzione e, quindi, miglioramento. I social, infatti, hanno spostato l’asse del fare proselitismo e propaganda dal partito all’uomo di punta: è lui, infatti, che attraverso i nuovi media detta il credo comune al gruppo e si preoccupa di ottenere, allargare e mantenere i consensi. Consensi che non sono più un applauso a fine comizio, una stretta di mano o una pacca sulla spalla dopo una chiacchierata: nella piazza virtuale dei social i consensi diventano pollici in su, condivisioni e retweet. E così lo slogan dello zio Sam oggi diventa “I want your like”. E se per convincere un elettore a mettere la croce sul proprio nome nella penombra della cabina elettorale, in passato si faceva visita a famiglie, bottegai e associazioni per proporre, ascoltare e confrontarsi mentre le sezioni svolgevano un ruolo aggregativo e di vigilanza sull’operato dei candidati affinchè non tradissero i valori del simbolo e le aspettative del popolo, oggi per un like lo zio Sam si barcamena fra concetti spesso al limite del proprio credo politico noncurante della coerenza tanto cara alla vecchia guardia e soprattutto si improvvisa intrattenitore di masse.

Perchè lo sappiamo bene, i social sono un posto dove “svagarsi e divertirsi” e dove i famigerati algoritmi premiano soprattutto chi produce leggerezza. E la politica moderna non ha fatto altro che adeguarsi. La partita, infatti, oggi non si gioca più su fatti e contenuti (quando ci sono, infatti, il messaggio diventa autoreferenziale e autocelebrativo), ma sulla simpatia e sulla emotività, e stare sul pezzo diventa dire la propria sui trends (le tendenze) del momento. Non si denunciano più disservizi e non si propongono più soluzioni, ma si dice quello che i followers vogliono sentirsi dire. In questo modo, nella realtà dei fatti, viene a mancare il rapporto di fiducia con l’elettore (fondamentale in politica!) dal momento che non ci sono più l’aderenza alla realtà territoriale, le relazioni e il confronto con l’altro (neanche gli haters riescono a creare un contradditorio perché vengono bannati).

A ben guardare, dunque, la politica ai tempi dei social è molto meno inclusiva e “pop” (nel senso letterale di “popolare”) di quella di un tempo fatta di piazze, case e soprattutto relazioni umane. E allora viene da chiedersi: che tipo di politica vogliamo veramente?

(Scritto per ‘L’altra campana’, numero di novembre 2020)